Classici da riscoprire #1: Thomas Hardy, Via dalla pazza folla (1874)

Da tempo riflettevo sul fatto che, nonostante la mia lunga carriera scolastica, ho come l'impressione di non aver letto abbastanza classici della letteratura mondiale. 
Conosco molti autori contemporanei ma certe pietre miliari della letteratura non le ho mai affrontate o le conosco solo per sentito dire. Così ho deciso di provi rimedio leggendone qualcuno, uno di fila all'altro... Una specie di Project 10 Books, ma con i classici… 
Per il momento ho letto:
Anne Bronte - Agnes Grey
Henry James - Che cosa sapeva Maisy
e sul mio comodino in attesa ci sono già:
Victor Hugo - L'uomo che ride
W. M. Thackeray - La fiera della vanità

Questo invece è il primo che ho affrontato ed è stato... un amore folle verso l'autore e il suo romanzo... Riscopritelo anche voi!!!



Thomas Hardy o, come lo definisco io, "l'autore dimenticato".

FERMATEVI a pensare e chiedetevi se lo avete mai sentito nominare di recente, se avete visto un suo libro in una qualsiasi libreria, se vi siete imbattuti in una qualsiasi recensione di una sua opera. Molto probabilmente la risposta sarà: NO.
A me sembra che, almeno per quanto concerne il popolo dei lettori italiani, abbia dimenticato questo autore inglese del XIX secolo, autore di capolavori assoluti come "Tess of The D'Ubervilles" e "Jude The Obscure", solo per citare i suoi titoli più conosciuti, oltre ad aver composto meravigliose poesie.
Per mia fortuna l'ho conosciuto ai tempi dei miei studi universitari e da allora mi sono sempre ripromessa di approfondirlo e conoscere meglio le sue opere. Peccato che ci sia messa di mezzo questa amnesia collettiva e per trovare un suo libro abbia dovuto "ripiegare" sulla biblioteca. Questo significa che, finito il mese di prestito, dovrò restituire il libro, quando invece il mio diavoletto custode vorrebbe sottrarlo al pubblico e tenerlo tutto per me!
Perché questo libro è incantevole, bellissimo, fuori dal tempo e dagli schemi letterari attuali, lirico e in certe parti, pura poesia.

Se avete intenzione di apprestarvi a leggere questo libro, o uno qualsiasi di questo autore, non fatelo a cuor leggero. Non pensate di avere a che fare con una prosa semplice, lineare, uno di quei libri "che si lasciano leggere da soli". 
Hardy pretende che gli dedichiate tutta la vostra attenzione. 
Egli non è semplice, le descrizioni e i paragoni sono pregni, spesso i giri di parole sono complicati e hanno bisogno di essere riletti due, tre volte per essere compresi appieno; ma quando vi addentrerete nella sua prosa capirete che fine narratore egli sia, al confronto del quale molti maestri di oggi impallidiscono.
In lui le descrizioni sono vivide, ricche di particolari, liriche, poetiche. 
Se potessi vi citerei pagine intere che mi hanno rapito, ma rischierei di riscrivere il libro, perché ogni pagina è un esempio di perfezione.
Allo stesso modo in cui le descrizioni sono lunghe e particolareggiate, i dialoghi sono arguti, fulminei, moderni, ironici. 
L'insieme di questi due elementi rendono "Via dalla pazza folla" un libro indimenticabile così come sono indimenticabili i suoi protagonisti.

"A Londra, venti o trent'anni fa è un tempo antico; a Parigi lo è dieci o cinque anni; a Weatherbury una sessantina o un'ottantina di anni erano inclusi nell'attuale presente, e nulla che fosse inferiore al secolo lasciava qualche traccia nel suo aspetto o nel suo tono di vita. Cinque decenni riuscivano appena a modificare d'un capello il taglio delle ghette, i ricami di un camiciotto. Dieci generazioni non riuscivano ad alterare il giro di una sola frase. In quei remoti canticci del Wessex i tempi antichi dell'affaccendato forestiero non sono che i tempi vecchi; i suoi tempi vecchi sono ancora nuovi; il suo presente è il futuro."

Avvicinandomi al libro senza sapere nulla della trama, avrei pensato di leggere la storia di  un allontanamento volontario dalla città frenetica per preferire un ambiente ritirato e solitario; lo scontro interiore di un protagonista che per varie vicissitudini decidesse di abbandonare la città. 
Niente di più sbagliato.
Hardy sceglie questo titolo per immergerci in una storia pastorale, tutta vissuta nell'idillio della campagna inglese del Wessex di sua invenzione. La storia di personaggi dall'estrazione semplice, pastori, contadini, fittavoli, ma dalla passioni tumultuose.


Proverò a darvi qualche cenno sulla trama, anche se la vicenda è così complessa e ricca di sfumature da essere quasi impossibile da riassumere esaurientemente.
In un paesino della regione del Wessex (antico nome del Dorset, la regione d'origine dell'autore), il giovane Gabriel Oak è riuscito a diventare fittavolo di una piccola proprietà e alleva orgoglioso le sue pecore, speranzoso di poter diventare col tempo un proprietario terriero. In questa veste conosce la giovane e volitiva Bathsheba Everdene, in visita ad una zia. Innamoratosi di lei al primo apparire della giovane, Oak le chiede di sposarlo ma viene respinto perché la ragazza lo ritiene di estrazione sociale troppo inferiore a lei. Qualche tempo dopo Oak perde tutto il suo gregge per una serie di sfortunate coincidenze ed è costretto a vagare per i paesini del Wessex in cerca di una nuova occupazione. Per caso arriva a Weatherbury e si imbatte di nuovo in Bathsheba, nel frattempo divenuta a sua volta fittavola di una grande proprietà avuta in eredità da uno zio e che ella cerca di gestire da sola, senza l'aiuto di un fattore, come d'abitudine. Oak, sempre innamorato di lei, diventa il suo pastore e confidente, una sorta di angelo custode, che da lontano segue le vicende della giovane e la protegge. Bathsceba, donna indipendente e decisa, fa innamorare di se il suo vicino, il fittavolo Boldwood, e pur non amandolo, si impegna ugualmente a sposarlo, salvo poi far cadere l'uomo nella piu totale disperazione quando s'innamora del sergente Troy, il peggior partito che potesse mai scegliere... 

Pensando allo stile di Hardy, l'unico paragone che mi viene in mente è la pittura fiamminga (per esempio Anton van Dyck http://it.wikipedia.org/wiki/Opere_di_Antoon_van_Dyck) o le opere di Piero della Francesca, come i ritratti di Federico da Montefeltro e della sua consorte; quei meravigliosi dipinti in cui il volto di un personaggio è ritratto in primo piano, sullo sfondo di un paesaggio lontano che lascia però intatti tutti i particolari, paesaggi piccolissimi ma pieni di vita che lasciano senza fiato, nonostante manchino di prospettiva in quanto nella realtà mai un paesaggio sarebbe così particolareggiato visto da lontano. 
Allo stesso modo Hardy tiene costantemente sul proscenio i suoi personaggi principali non abbandonandoli mai, ma nello stesso tempo dipinge alle loro spalle un mondo pieno di sfumature, personaggi secondari, descrizioni, ambienti, che arricchiscono e completano gli stessi protagonisti, gli uni non potrebbero esistere senza gli altri perché è l'ambiente a creare i personaggi e i personaggi a rendere l'ambiente in cui sono immersi così perfetto.
Hardy è un cesellatore di immagini, uno scalpellino che lavora con la sua prosa per creare un quadro pastorale unico, fissando sulla pagina un mondo ormai scomparso e che già andava scomparendo nel momento stesso in cui egli lo descriveva. Come asserisce anche Attilio Bertolucci nell'introduzione all'edizione Garzanti del 1989 che io ho avuto la fortuna di recuperare; a differenza dei suoi contemporanei (due tra i tanti: Dickens e Thackeray) che "avevano accordato la loro fantasia creatrice allo straordinario fenomeno che era la città moderna", Hardy, pur conoscendo l'ambiente londinese, gli preferisce il suo natio Dorset, ovvero quello che lui chiama Wessex, rispolverando l'antico nome della regione. Una terra quasi avvolta dal mito dove fittavoli, pastori, braccianti, vivono in comunione con il bestiame e la natura, un mondo che sforna personaggi indimenticabili come i due protagonisti Bathsceba e Gabriel Oak.

Il capitolo iniziale è esemplare nel modo in cui Hardy introduce i suoi protagonisti.
L'incipit che presenta Oak rimane impresso nella mente senza volersene più andare.

"Quando il fittavolo Oak sorrideva, gli angoli della bocca gli si slargavano fino a trovarsi a esigua distanza dagli orecchi; gli occhi gli si riducevano a due fessure; e apparivano loro intorno certe grinze divergenti che si stendevano sulla sua fisionomia come i raggi di un rudimentale abbozzo di sole nascente."

Oak, come il suo nome stesso suggerisce, è una quercia, il pilastro portante della narrazione. Colui capace di tenere le fila della storia, granitico, calmo e sempre padrone di se anche nelle situazioni più difficili, o quando il destino gli si mette contro e lo costringe ad affrontare momenti molto difficili. 
Il fato lo mette di fronte a difficili prove come: il rifiuto di Bathsceba a sposarlo, la perdita del suo gregge e il conseguente declassamento sociale, l'amore sempre celato per la protagonista. Malgrado questo, egli rimane fermo nei suoi propositi, una presenza fondamentale dell'intero romanzo anche quando il suo autore pare momentaneamente dimenticarlo per capitoli interi e di lui niente viene detto. Egli è colui che è capace di salvare le pecore che hanno ingurgitato troppa erba, che mette in salvo il raccolto dalla tempesta e dagli incendi. 

Anche l'affacciarsi sulla scena della protagonista femminile Bathsceba è allo stesso modo indimenticabile. La vediamo farsi strada tra l'idilliaca campagna inglese a bordo di un carretto pieno zeppo di mobilio e suppellettili sul quale ella è posta come una regina sul trono.

"La ragazza in cima al carico se ne stava immobile, circondata di tavole e sedie a gambe all'aria, appoggiata a una panca di quercia, e decorata sul davanti da vasi di gerani, mirti e cacti, accompagnati da un canarino in gabbia, il tutto proveniente, con ogni probabilità, dalle finestre della casa da poco evacuata. Vi era anche, in un paniere di vimini, un gatto, il quale stava affettuosamente sorvegliando ad occhi socchiusi gli uccellini all'interno, dal coperchio semiaperto."

Da una giovane in quella posizione non ci si aspetterebbe di certo il gesto successivo: "volse il capo per vedere se il carrettiere stesse per giungere. Non era ancora in vista; e i suoi occhi ritornarono al pacco, e parve che i suoi pensieri speculassero su cosa potesse contenere. Alla fine, tirò su l'oggetto, nel proprio grembo, e disfece l'involucro; un piccolo specchio a dondolo rimase allo scoperto ed in quello essa procedette a rimirarsi attentamente."

Nell'atto di guardarsi allo specchio, seduta su un carro, nell'estraneità di questo atto non certo consono all'ambiente in cui è immersa, sta tutta l'essenza del personaggio di Bathsceba. Una giovane ragazza di campagna dalla forte indipendenza, decisa a farsi valere in un mondo che la vorrebbe timida ed arrendevole. Ella è un carattere ambivalente, da un lato ha una sfrontatezza e una forza d'animo molto moderna e che la rende del tutto diversa dalle cedevoli eroina dell'epoca. Rifiuta quasi sdegnosamente la proposta di matrimonio di Oak perché non lo ritiene alla sua altezza, dirige con piglio quasi maschile la sua tenuta, recandosi personalmente al mercato del grano, luogo prettamente maschile, e supervisionando la tosatura delle sue pecore. 
Ella riesce perfino a smuovere l'animo di un uomo tranquillo e imperturbabile come il fittavolo Boldwood, noto a tutti per il suo carattere quieto e tranquillo. Boldwood si rivela invece la classica "acqua cheta che rompe i ponti", facendosi trasportare dalla passione per la ragazza quasi fino all'ottenebramento delle sue capacità.

"la sua non era una natura comune. Quella tranquillità, che colpiva un osservatore occasionale, più di ogni altra cosa, nel suo carattere e nelle sue abitudini, e che somigliava così perfettamente a un residuo di vuotezza, avrebbe anche potuto essere un perfetto equilibrio di enormi forze antagonistiche, positive e negative, convenientemente aggiustate. Una volta scosso dal suo equilibrio, egli passava immediatamente all'estremo. Se mai un'emozione lo coglieva, finiva per governarlo; un sentimento che non lo governasse era del tutto latente. Stagnante o rapido, non era mai lento, era sempre o colpito mortalmente, o illeso."

Peccato che la forza di carattere di Bathsceba verso la metà della narrazione venga messa in crisi dal giungere sulla scena del personaggio più meschino, vile, approfittare, egoista ed egocentrico nel quale mi sia mai imbattuta. Sto parlando del sergente Troy, che con i suoi modi affettati e adulatori riesce a farla cadere nelle sue spire come la più arrendevole delle eroine romantiche. In questo momento Bathsceba diventa una qualunque donna preda delle sue emozioni e subisce un'involuzione a mio avviso molto negativa.
Questo momento di debolezza  rischierà di compromettere non solo la sua vita, ma anche la sua tenuta e il duro lavoro di anni. 
Per fortuna il suo "angelo custode" Oak non la abbandonerà mai neanche nei momenti più critici e costituirà la salvezza di Bathsceba.

L'unica nota negativa che posso trovare in tutto il romanzo è nel confronti della traduzione italiana risalente agli anni '80 e che ha scelto di tradurre in italiano molti dei nomi propri dei personaggi, lasciando invariato il cognome inglese. È così mi sono dovuta sorbire per tutto il romanzo un protagonista di nome "Gabriele" Oak anziché Gabriel. Allo stesso modo molti dei personaggi di contorno hanno nomi assurdi come Giuseppe Poorgrass, Giacobbe Smallbury, Susanna e Labano Tall mentre altri conservano i loro nomi originali: Mark Clark, Jan Coggan.
Francamente non ho capito la necessità di questa traduzione arbitraria di alcuni nomi a discapito di altri. 

So che l'anno prossimo uscirà un film tratto dall'opera, con Carey Mullighan, una delle attrici più brave del momento, nel ruolo di Bathsceba. Mi auguro che questo film serva ad attirare un po' l'attenzione su Hardy e a riportare le sue opere nelle librerie. Non fa nulla se molto probabilmente in una orrenda edizione con i protagonisti della pellicola sulla copertina. Basta che si ricominci a leggerlo. Basta che venga pubblicata una nuova traduzione aggiornata. Basta che lo si tiri fuori dal dimenticatoio nel quale lo si è ingiustamente relegato.






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