Guardando il baratro: "La strada" di Cormac McCarthy

Da dove poter iniziare a parlare di un libro come questo, che mi ha così tanto scosso e il cui pensiero non mi abbandona a distanza di settimane dalla sua chiusura?
Inizierò dai fatti oggettivi: "La strada" è rimasto sul mio comodino per giorni e giorni nonostante lo avessi finito, e questo la dice lunga su quello che mi ha lasciato. Perché dovete sapere che il posto sul comodino se lo guadagnano solo i libri che stanno per essere letti o che vorrei leggere a breve. Appena un libro è finito lo sposto sul tavolo della sala, nella pila di quelli in attesa di essere recensiti o di cui vi vorrei parlare sul canale. Per "La strada" non è stato così, è rimasto sul comodino nel suo posto d'onore per giorni, anzi settimane, come se dovessi ancora finirlo o dovessi leggerlo a breve.
E il motivo è facile intuirlo: è stata una lettura tanto intensa che credo di non averla ancora metabolizzata e chissà quando questo accadrà! Una cosa simile mi era successa soltanto con "Cecità" di José Saramago, ed è proprio a quel libro che io accostò questo capolavoro: due letture dure, scostanti, a tratti respingenti ma necessarie, che ti lasciano dentro una ferita, qualcosa che non se ne va più.


Prima di questo libro conoscevo Cormac McCarthy solamente di fama e per l'imperfetta sceneggiatura di "The Counselor".

"La strada", romanzo vincitore del Pulitzer nel 2009, ruota attorno ad una trama esilissima: padre e figlio si aggirano per le strade di un'America devastata da un enorme cataclisma spingendo un carrello della spesa che contiene le loro poche e miserevoli cose, alla ricerca di un posto più caldo.
Tutto qui. 
Se lo si considera da un punto di vista superficiale non c'è molto altro da dire. Per circa 200 pagine i due protagonisti si limitano ad aggirarsi a vuoto in uno scenario deprimente senza che gli succeda quasi niente.

Se invece non ci si limita ai fatti e si scava sotto la superficie accade moltissimo, tutto direi.

Prendiamo prima di tutto quelle poche pagine: esse sono così dense che sembra di leggere un tomo di notevoli proporzioni. La prosa di McCarthy è così corposa che non concede respiro e costringe il lettore a pause forzate per prendere aria e non sentirsi costantemente in apnea.

In secondo luogo lo stile: McCarthy procede asciguando all'osso la sua prosa e raccontando solo l'essenziale. Il libro è un unico lungo capitolo fatto di istantanee che descrivono quello che i due protagonisti vedono e quel poco che gli succede. I dialoghi, quei pochi che ci sono, sono le parole smozzicate e monosillabiche di due persone che non hanno bisogno di parlarsi perché non c'è davvero niente da dire.

L'apocalisse: qualcosa è successo alla nostra Terra, ma a noi viene mostrato solo il risultato, non sappiamolo nulla di quanto sia effettivamente accaduto se non  qualche frammento sporadico e incompleto (si parla di esplosioni ed elettricità che se ne va in uno dei pochi flashback). E anche in questo McCarthy è magistrale perché quel poco che ci dice basta a darci il peso di quanto accaduto. Scrittori prolissi avrebbero impiegato pagine su pagine per raccontarci l'apocalisse nei minimi particolari, qui non succede perché l'avvenimento non è il fulcro della narrazione. Ci basti sapere che tutto ciò che conoscevano è stato spazzato via e la Terra è un luogo desolato, plumbeo, freddo, anzi gelido, in cui il sole è coperto, forse per sempre, dalla spessa coltre di nubi che ricopre il cielo e che fa piovere o nevicare mettendo a dura prova l'esistenza dei pochi sopravvissuti.

Desolazione, morte, fame. Questo è ciò che rimane della terra.



E parlando di ciò che rimane arrivo a parlare dei due protagonisti, un padre e un figlio che rappresentano due generazioni a confronto.
Il padre è l'uomo del passato, colui che ricorda ancora com'era il mondo prima dell'apocalisse. Il figlio è la nuova generazione che conosce solo questa realtà. Ma tra i due colui che porta la speranza è proprio il bambino che non ha conosciuto altro che morte e devastazione, ma che spera nel cambiamento, che un giorno il mondo possa in qualche modo ripartire e tenta di salvare le poche persone che i due incontrano nonostante le brutture, il cinismo, la diffidenza che le circostanze impongono. Tra i due è il padre il più diffidente e negativo, colui che non ha speranze per il futuro, forse perché ha visto quello che gli uomini hanno fatto alla loro preziosa Terra.

In questo romanzo McCarthy costringe il lettore sul bordo di un precipizio: volgendosi indietro egli può vedere in lontananza sprazzi del mondo che conosce, ma è inchiodato a quel precipizio, costretto a guardare il baratro che incombe, che lo avvolge inesorabilmente e nel quale è destinato a cadere, senza conforto e senza possibilità di salvarsi.
Lettori: cadrete nel baratro e vi farete molto male, ma sarà un dolore necessario per conoscere un romanzo immenso che non dimenticherete tanto facilmente.

Commenti

Marco Freccero ha detto…
Credo che Cormac McCarthy sia uno dei pochi scrittori viventi che possa dare il "tu" a Dostoevskij. Di bravi ce ne sono tanti, ma lui è un altro livello.
Di lui ho letto tutto quello che è disponibile, e vorrei che si sbrigasse a pubblicare il nuovo romanzo, al quale lavora da un bel po' di anni.

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