Shirley Jackson - Abbiamo sempre vissuto nel castello

Vi siete mai chiesti quali sono gli elementi vi fanno tanto appassionare ai libri dark e creepy?
Vi piace essere spaventati?
Vi alletta l'idea di aver paura a stare a casa da soli e vi affascina l'idea di spegnere tutte le luci e avere l'impressione che qualcuno sia dietro le vostre spalle?
O amate di più l'horror puro, quello popolato da mostri e creature orribili che solo a vederle vi sale il conato di vomito?
Personalmente amo quel leggero brivido che mi corre lungo la schiena, mi piace essere spaventata ma in modo sottile, raffinato e ciò che più amo è quella crepa di anormalità e suggestione quando è nascosta nelle pieghe della normalità.

"Abbiamo sempre vissuto nel castello" è un esempio alto, quasi vertiginoso, di gothic novel perfetta, magistrale, travestita da libro qualunque. Tra le pieghe di una storia breve, appena 182 pp. si nasconde uno dei più grandi romanzi gotici moderni che siano stati scritti.
Parlavo di crepa sottile della normalità.
L'incipit del romanzo ne è un esempio perfetto:

"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e abito con mia sorella Costance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l'Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti."

In questo conciso primo paragrafo è contenuto tutto ciò che dobbiamo sapere per entrare nel cupo mondo della famiglia Blackwood e della protagonista. Poche righe e già sappiamo che quello che stiamo per leggere non sarà un libro che potremo dimenticare facilmente.
Quello che sembra un resoconto comune della vita di una ragazzina di diciotto anni ancora acerba e immersa nel suo mondo di fantasia (il riferimento al lupo mannaro), inizia a scricchiolare quando enumera tra le sue passioni un fungo velenoso e diventa poi lampante, un primo brivido che fa rizzare i peli sulla nuca, quando ci dice candidamente che tutta la sua famiglia è morta, tranne la sorella Costance, nominata due volte e che appare subito come un elemento chiave dell'intera vicenda e del mondo di Mary Katherine.

Del resto stiamo leggendo l'ultimo romanzo pubblicato nel 1962 da colei che può essere tranquillamente definita "la regina del gotico americano contemporaneo".
Shirley Jackson è infatti citata a più riprese da autori di grande fama come Stephen King o Neil Gaiman come loro grande fonte di ispirazione.

Ma torniamo alla famiglia Blackwood:
Come ci dice la stessa narratrice Mary Katherine son tutti morti.
La famiglia, o ciò che rimane di essa, vive in una grande magione circondata da boschi e prati, separata dal resto della comunità locale. Dalle parole di Mary Katherine, detta Merricat, veniamo a sapere che nella casa vive anche la sorella Constance, più grande di circa 10 anni, lo zio Julian costretto sulla sedia a rotelle, e un gatto, fedele compagno di Merricat.
Constance non va più in la del giardino della sua proprietà, zio Julian ha bisogno di assistenza continua, quindi Merricat è anche l'unica che si allontana dalla casa due volte alla settimana per andare a far la spesa in paese.
Il capitolo iniziale si concentra proprio su questa uscita all'esterno del microcosmo dei Blackwood e capiamo subito dai pensieri della ragazzina e da come viene trattata, che qualcosa non va. I Blackwood sono,infatti, odiati dal resto della cittadinanza.
Attraverso i racconti dello zio veniamo a sapere che gli altri componenti della famiglia, ovvero la madre, il padre, un fratellino più piccolo e la moglie di zio Julian, sono tutti morti durante la cena sei anni prima, avvelenati dall'arsenico messo nello zucchero. Si sono salvati solo Merricat, perché era in punizione nella sua stanza, Constance perché non usa lo zucchero e Julian, intossicato ma  che riuscì a salvarsi. E proprio l'avvelenamento da arsenico che lo ho costretto sulla sedia a rotelle in preda a forti dolori. La colpa ricadde su Costance, colei che in casa cucinava, incarcerata, processata e infine assolta.
Dall'assoluzione di Constance i componenti superstiti si sono ritirati nella loro residenza vivendo quasi come eremiti, solo due donne si recano a prendere il tè una volta alla settimana. In paese tutti li odiano perché credono che Constance sia colpevole e che i Blackwood siano degli sciroccati.
I tre a loro modo son felici, la vita è scandita da rituali giornalieri che danno loro l'idea di un fragile equilibrio che un giorno viene spezzato dall'arrivo di Charles Blackwood, un cugino delle ragazze.

In poche pagine magistrali e perfette la Jackson costruisce un gioco ad incastri su tematiche molto importanti e creano un universo narrativo che poche volte mi sono ritrovata a leggere.

Le tematiche principali sono:

La persecuzione di coloro che sono considerati "diversi" in una piccola comunità di provincia.
I Blackwood sono "diversi" e per questo odiati. Questo sentimento va al di là della vicenda di cronaca nera, si capisce che sono invisi al prossimo per principio, perché deve essere così e quel fatto ha solo reso più acuto questo odio che già aleggiava nell'aria da anni.

La riflessione su cosa sia normale e dove risieda la felicità.
Per Merricat la normalità la quotidianità sono il suo piccolo mondo tutto costruito intorno alla sorella e alla sua casa, qui risiede la felicità. L'uscita nel mondo è una costrizione e ciò che è normale per gli altri (prendere un caffè, fare la spesa) è anormale e imposto per lei.
Agli occhi della ragazzina sono i paesani ad essere anormali.

La descrizione di due menti profondamente alterate e affette da agorafobia (paura degli spazi aperti e degli ambienti non familiari) come quelle di Costance e Mary Katherine.
In esse la Jackson avrebbe instillato le sue stesse paure e l'instabilità che la portarono ad una morte prematura a soli 48 anni.

L'amore fraterno che sconfina nella patologia.
Le due protagoniste sono due ragazze profondamente instabili che si aggrappano luna all'altra in un intreccio di sentimenti fraterni quasi morbosi, incapaci di riuscire a giudicare le colpe e le turbe delle loro menti.

Un risultato così magistrale viene raggiunto soprattutto grazie all'uso di un narratore, Mary Katherine, totalmente inaffidabile che ci racconta la sua versione dei fatti, ma da cui è necessario prendere distanza per capire realmente come siano andate veramente le cose.









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